Può la diversità favorire l’unità nella Chiesa? Ce ne parla in questo articolo sorella Chieko N. Okazaki.
A volte, quando parlo a una congregazione, chiedo quanti di loro sono nati da genitori membri della Chiesa e quanti hanno preso la decisione di convertirsi.
(alcuni di loro non sono sicuri di cosa rispondere, finché non spiego che non è una domanda a trabocchetto e che non ho intenzione di dire: “Aha! Cosa c’è di sbagliato in voi altri? Dovremmo tutti essere convertiti!”).
Questo permette a noi, come gruppo, di parlare di scelte.
Ovviamente, quel giorno hanno scelto di essere presenti piuttosto che essere da qualche altra parte; cosa che per molti membri ha comportato la necessità di fare incastrare con difficoltà altri aspetti della loro vita che richiedono attenzione.
È una scelta che apprezzo molto, come potete immaginare. Il secondo punto che mi piace sottolineare è che proveniamo da molti ambienti e contesti diversi per formare il gruppo in cui ci troviamo.
La nostra diversità è uno dei nostri maggiori punti di forza e una delle fonti di unità nella Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni.
Il diritto di scegliere
Il nostro diritto di scegliere è eterno. A volte diciamo che è dato da Dio, ma anche questo non è del tutto esatto. È protetto da Dio, ma il diritto di scegliere fa parte del nostro essere eterno.
Dio non può e non vuole toglierci questo diritto, altrimenti cesserebbe di essere Dio. È Satana che ha tentato di toglierci il diritto di scegliere nell’esistenza preterrena, ed è sempre Satana che cerca di togliercelo qui.
Se ricevete messaggi da qualsiasi quadrante che dicono: “Prenderemo noi le decisioni al posto vostro” o “Fate solo quello che vi diciamo”, spero che si accendano dei campanelli d’allarme che dicano:
“Perché sto ricevendo questo messaggio?” e “Quali saranno i risultati se lascio che qualcun altro prenda questa decisione per me?”.
Spero anche che saremo altrettanto attenti nel dare questi messaggi. Mi rendo conto che quando abbiamo a che fare con i nostri figli c’è l’enorme tentazione di dire:
“Ne so più di voi. Fate a modo mio o ve ne pentirete”.
Ma se lo facciamo con i nostri figli, penso che sia facile trovarci a farlo anche con i membri che hanno meno esperienza nella Chiesa o meno esperienza nelle loro chiamate.
Come l’anziano M. Russell Ballard ha chiarito nei suoi discorsi della conferenza generale e nei suoi libri, l’ordine corretto di un consiglio è assicurarsi che ogni membro abbia la possibilità di parlare e che le sue preoccupazioni siano ascoltate e comprese; poi, quando la decisione è presa, anche se è diversa da quella che preferiremmo, possiamo sostenerla.
Il Signore ha fatto questa bella e allettante promessa:
“Poiché avverrà in quel giorno che ognuno udrà la pienezza del Vangelo nella sua lingua e nell’idioma suo proprio, tramite coloro che saranno ordinati a questo potere mediante il ministero del Consolatore, versato su di essi per rivelare Gesù Cristo” (Dottrina e Alleanze 90:11).
Cosa significa ascoltare la pienezza del Vangelo nella propria lingua?
Ho pensato a questa Scrittura quando ero in Inghilterra e cercavo di ricordare che dovevo guardare i taxi e gli autobus che arrivavano sul lato sinistro della strada, che flat vuol dire appartamento e che non è un tipo di scarpe, e che lift vuol dire ascensore e non sopratacco.
Ammiravo i missionari che avevano imparato a capire e a parlare questa lingua per potervi comunicare la pienezza del Vangelo. Amavo la lingua inglese per quello che mi diceva sul popolo inglese.
Ho cercato di assorbire quanta più cultura possibile non solo perché volevo imparare, ma anche perché mostrare rispetto per le origini nazionali o etniche di una persona è un modo per mostrare rispetto per quella persona. È un modo per dire:
“Da dove vieni, come fai e come dici le cose è importante per me perché tu sei importante per me”.
Un dirigente della Chiesa che ha usato questo versetto come testo per un sermone mi ha fatto riflettere più profondamente quando ha detto:
“Non credo di trattare questo testo in modo irresponsabile se suggerisco che potremmo includere il linguaggio dei bambini, dei giovani, dei poveri, dei benestanti, degli istruiti e dei non istruiti, e di qualsiasi altro gruppo la cui lingua è la loro porta d’accesso all’ascolto e alla comprensione”.
Anche se il gergo interno [della Chiesa] può facilmente scapparci di bocca, faremmo bene a ricordare che questo linguaggio può servire da barriera piuttosto che da porta d’accesso”.
Diversità e unità nella Chiesa
Il secondo punto che voglio sottolineare è la forza che deriva dalla diversità e l’unità nella chiesa che essa può portare.
Ne so qualcosa di diversità razziale ed etnica. Sono cresciuta alle Hawaii e mi sono unita alla Chiesa all’età di quindici anni, quindi sono un membro da più di sessant’anni, una vita intera.
Nel corso degli anni ho incontrato molte persone che trasmettono, a volte inconsciamente ma a volte di proposito, l’idea che i convertiti non siano all’altezza dei membri nati in chiesa: che non sono altrettanto impegnati, che non capiscono il Vangelo così bene, che non lo prendono così seriamente e che hanno ancora qualcosa da dimostrare prima di essere pienamente accettati.
Forse non è necessario dire che mi dispiace molto per le persone che hanno questa prospettiva.
Penso che sia vero che i membri della Chiesa che vi sono nati possano talvolta avere un immenso vantaggio nell’essere nati e cresciuti all’interno della cultura di un particolare gruppo etnico di Santi degli Ultimi Giorni.
Sanno come pregare usando il linguaggio della Chiesa.
Sanno quasi istintivamente come orientarsi in una casa di riunione. Usano facilmente termini come SIG e AMM. C’è una grande forza nella sicurezza che deriva dal conoscere un sistema a 360 gradi.
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Ma c’è anche una debolezza intrinseca nell’essere “nati” nella Chiesa. Significa che si può non essere un buon interprete quando è necessario interfacciarsi con un gruppo esterno alla Chiesa.
Non conosciamo letteralmente la lingua dell’altro gruppo. Non conosciamo le loro abitudini. Possiamo essere disposti a pregare con loro, ma ci sorprendiamo se si alzano per pregare o se usano un linguaggio di preghiera diverso dal nostro.
Queste differenze non sono difficili da colmare; ma chi non ha esperienza nel fare queste necessarie traduzioni culturali può sentirsi a disagio e persino offeso da queste differenze, invece di accettarle come naturali e normali.
E, nel frattempo, le persone dell’altro gruppo potrebbero sentirsi a disagio con la lingua e le usanze dei Santi degli Ultimi Giorni.
Che benedizione, in queste situazioni, avere un altro convertito che abbia radici in quell’altra tradizione religiosa o sia in qualche modo legato al gruppo esterno e possa facilmente fornire un’interpretazione.
Certamente è nostro dovere cercare di costruire questi ponti, di essere flessibili e comprensivi.
La grande benedizione che ci viene data dalla crescita della Chiesa rende chiaro che tutti i membri, ovunque, devono essere preparati a comunicare con rispetto e chiarezza a molti tipi diversi di gruppi religiosi e comunitari.
Riuscite a capire perché vedo la diversità come un grande punto di forza, che ci permette di imparare gli uni dagli altri e avere maggiore unità nella Chiesa?
Carolyn Rasmus, ex assistente esecutiva del consiglio generale delle Giovani Donne e convertita, ha sottolineato:
“Siamo una chiesa eterogenea, composta da persone con un background unico e diverso.
Rappresentiamo una diversità di età, esperienze, talenti, situazioni familiari e personali, lingue parlate e comprese, istruzione, stato civile e vocazioni ecclesiastiche.
Ma più importanti della nostra diversità sono le cose che ci legano e ci uniscono.
Pur nella nostra diversità, siamo uniti dal legame di fede nel Signore Gesù Cristo e dal nostro impegno nella Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Siamo persone di fede.
È la cosa che ci distingue dal mondo. È ciò che ci rende fratelli e sorelle nel senso più completo del termine.
La fede è il fattore unificante che ha creato un legame comune tra me e… le sorelle di tutto il mondo, con i nostri vicini di casa o con la persona seduta accanto, dietro o davanti a voi.
Siamo sorelle e fratelli di una fede comune. È la nostra fede, credo, che non solo ci unisce, ma che alla fine sarà l’unica cosa che conta davvero”.
Questo articolo è stato originariamente scritto da Haley Lundberg ed è stato pubblicato su ldsliving.com, intitolato 4 blessings from treating your ward family like your actual family. Italiano ©2023 LDS Living, A Division of Deseret Book Company | English ©2023 LDS Living, A Division of Deseret Book Company
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