Dovremmo sempre essere “felici”? Uno sguardo ravvicinato alla dottrina indica che la “gioia” è ciò che fornisce pace duratura.

La fugacità della felicità e la durevolezza della gioia

Di recente, mentre pensavo a come trovare un po’ di sicurezza, di pace o di felicità in un mondo sempre più inquieto e problematico – un mondo che sembra sfuggire al controllo morale e spirituale ogni giorno che passa – mi sono ritrovato a notare degli adesivi da paraurti.

Sì, proprio così, adesivi da paraurti. Nell’ultima settimana ho visto adesivi che proclamavano ogni sorta di stranezze sulla felicità.

Uno di quelli che ho visto diceva che “La felicità è essere sposati”, mentre un altro che ho visto solo pochi istanti dopo rispondeva che “La felicità è essere single”.

Ieri ho visto un adesivo che mi diceva che avrei dovuto “Scegliere la felicità”, mentre un altro proclamava che “La felicità accade!”. E, naturalmente, il sempreverde: “Non preoccuparti, sii felice!”.

Altri che ho visto di recente indicano che la vera felicità nella vita si trova in qualsiasi cosa, da un’auto veloce al bacon croccante a un soffice cucciolo o persino, stranamente, a una pistola fumante.

Ho persino visto un adesivo particolarmente cinico che affermava che “La felicità è impossibile!”.

Ora, nonostante ciò che il tizio palesemente infelice, la cui auto sfoggiava quel deprimente adesivo, avrebbe potuto dire al riguardo, l’affermazione è ovviamente falsa.

Per la maggior parte delle persone, la felicità non solo è possibile, ma è piuttosto comune. Il problema della felicità non è che è impossibile, ma che è volubile, superficiale e fugace.

Come suggerisce la parola stessa, la felicità è frutto del caso, di eventi fortuiti e di fortuna. Se le circostanze sono favorevoli, si è felici; in caso contrario, si è infelici. 

Purtroppo, uno dei grandi malintesi di cui, a volte, come Santi degli Ultimi Giorni siamo vittime è credere che dovremmo essere sempre felici.

Dopo tutto, alcuni direbbero che abbiamo un “vangelo di felicità” e quindi sappiamo come vivere “in maniera felice”, quindi dovremmo essere felici dall’alba al tramonto e, forse, anche mentre sogniamo.

Tuttavia, sebbene io non sia un cinico e mi piaccia essere felice tanto quanto gli altri, credo fermamente che questa visione sia sbagliata.

Essa deriva, a mio avviso, dalla confusione sul significato delle parole felicità e gioia, in particolare per quanto riguarda l’uso di questi termini nelle Scritture.

I due termini sono diventati così completamente confusi e interscambiabili nel nostro uso contemporaneo che ora si tende a considerarli come sinonimi, e le loro differenze profonde sono raramente prese in considerazione.

In questo breve saggio in due parti, tuttavia, dedicherò un po’ di tempo a discutere queste differenze e a spiegare perché è così importante prestarvi attenzione.

Fondere il Vangelo con la falsa positività

Non molto tempo fa ho parlato con una studentessa di una delle mie classi che da un po’ di tempo era la presidentessa della Società di Soccorso nel suo rione. In effetti, non era la prima volta che ricopriva questo incarico in quel rione.

Mi ha confidato che uno dei suoi figli stava affrontando un divorzio difficile a causa della sua infedeltà e dei suoi problemi di pornografia, un altro rischiava di finire in prigione con una condanna per guida in stato di ebbrezza che aveva causato la morte di un’altra persona, sua madre stava soccombendo alla lenta e costante devastazione della demenza, suo marito soffriva quasi costantemente a causa di una malattia terrificante e irreversibile, e che per questo era profondamente depressa, molto spaventata e ansiosa.

Le sue lacrime scorrevano liberamente, forse per la prima volta dopo tanto tempo, mentre condivideva con me le sue circostanze e le sue difficoltà. Il mio cuore ha sofferto per la sua tristezza e il suo dolore e per la montagna di fardelli che era chiamata a portare.

È interessante notare che non aveva mai detto a nessuno nel suo rione come si sentiva.

Al contrario, aveva speso tutte le sue energie per costruire una facciata allegra e ottimista, perché pensava che rivelare la sua tristezza e le sue preoccupazioni, tanto meno la loro profondità, avrebbe potuto indurre le persone a credere che mancasse di fede o che non avesse una testimonianza solida.

I Santi degli Ultimi Giorni, credeva, non dovrebbero essere depressi, non dovrebbero essere tristi o mettere in dubbio Dio. Dovrebbero essere felici, allegri e ottimisti sempre e dovunque.

Diamine, persino i bambini pionieri cantavano mentre camminavano, camminavano e camminavano, diceva. Così, nella sua mente, i Santi degli Ultimi Giorni veramente fedeli non hanno nemmeno figli scontrosi!

Il modo di pensare di questa cara sorella, tuttavia, semplicemente non è scritturale, nonostante il fatto che sembra essere un’opinione condivisa da molti membri della Chiesa.

Le Scritture non insegnano che la felicità è solo una questione di pensiero positivo, che è il segno sicuro della rettitudine personale e del buon favore di Dio, o che per essere felici basta “rovesciare il cipiglio” – o, come cantava allegramente Bobby McFerrin, “Non preoccuparti, sii felice”.

Piuttosto, le Scritture insegnano:

“Non temete…in me la vostra gioia è completa.” e, ancora, “Non temere, perché io sono con te; non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio; io ti fortifico, io ti soccorro, io ti sostengo con la destra della mia rettitudine”.

Ora, alle nostre orecchie moderne, tutto questo può sembrare una distinzione senza molta differenza, ma in realtà c’è un mondo di differenza tra la felicità e la gioia.

Distinguere tra la felicità e la gioia

Come noi abbiamo due parole diverse – felicità e gioia – così le avevano gli antichi greci, nella cui lingua è stato scritto il Nuovo Testamento. La parola greca tradotta con “felice” nel Nuovo Testamento è makarios (μακάριος).

È interessante notare che questa parola è tradotta con “felice” solo cinque volte, mentre è tradotta con “benedetto” circa quarantaquattro volte.

La parola si riferisce alle circostanze fortunate e alla libertà di cui godono le persone ricche, sane e famose, la cui fortuna permette loro di evitare, o almeno di attenuare, molti dei normali fardelli e preoccupazioni della vita quotidiana.

Si tratta quindi di una parola che intende descrivere l’anima fortunata che è stata benedetta dal denaro, dalla salute, dal bell’aspetto, dal potere e dall’agio e da altre cose del genere.

In effetti, nell’Antica Grecia, makarios si riferiva tipicamente alla sorte dell’élite della società, dei potenti, dei ricchi, dei famosi e dei belli.

In genere si pensava che fosse il risultato di un modo di vivere corretto; in quanto, se si viveva bene, si ricevevano beni terreni, prestigio e status, oltre a cose materiali: una moglie obbediente, molti figli forti e talentuosi, un buon raccolto, una casa spaziosa e invidiabile, e così via.

Chiaramente, però, anche se la parola usata dai traduttori per makarios è “benedetto”, nel Sermone sul Monte Gesù si riferiva a qualcosa di molto diverso dalla concezione pagana di buona fortuna e di fortuna giustamente meritata.

La parola moderna “felicità”, almeno nel modo in cui la usiamo e la intendiamo, è più o meno equivalente al concetto greco di makarios. Se sono felice, è perché le cose mi vanno bene – le mie circostanze esteriori sono buone in virtù del caso, degli eventi o della fortuna.

Non ci sono crisi nella mia vita, sto bene, ho dei soldi in banca, nessuno mi perseguita, il mio lavoro va bene, mia moglie mi ha appena fatto una sorpresa con dei biscotti appena sfornati, la mia squadra di hockey preferita ha appena vinto una partita combattuta, e così via.

La natura duratura della gioia

Tutte queste cose mi rendono felice. Tuttavia, quando queste cose iniziano a cambiare, non rimango felice.

Quando il fisco viene a fare una verifica, o il tetto inizia a perdere, o la macchina viene distrutta, o vostra moglie scopre di avere il cancro, o perdete una meritata promozione, o la vostra squadra subisce un gol all’ultimo minuto e perde la partita… beh, allora la felicità esce dalla finestra e viene sostituita da rabbia, tristezza, delusione, frustrazione, risentimento o semplicemente dal vecchio malumore.

È interessante notare che, nonostante quello che a volte pensiamo, nelle Scritture non c’è un comandamento diretto di essere sempre felici. Certo, in molte occasioni ci viene detto di essere di buon animo.

Per esempio, Gesù dice ai suoi apostoli di “stare di buon animo, perché io ho vinto il mondo”. Tuttavia, qui la parola greca non significa che dobbiamo essere “allegri”. Piuttosto, la parola greca è tharseo (θαρσέω) e significa “farsi coraggio”.

Questo ha un po’ più senso, dato che il Signore stava facendo sapere ai suoi apostoli che di lì a poco avrebbero dovuto affrontare molte prove e tribolazioni, ma che dovevano farsi coraggio perché Lui aveva vinto il mondo per loro.

Stava insegnando loro che in Lui potevano trovare la speranza e la forza necessarie per resistere fino alla fine, per perseverare di fronte a quelle che si sarebbero rivelate tremende avversità.

Un’attenta lettura delle Scritture mostra che anche il Salvatore stesso non era sempre felice.

Vediamo, ad esempio, la sua indignazione per i cambiavalute che sviliscono il tempio con il loro commercio egoistico, le lacrime condivise con Maria e Marta sulla tomba del suo amico Lazzaro, la sua rabbia e il suo dolore per la durezza di cuore di coloro che nella sinagoga sostenevano che era peccato guarire di sabato.

Nel Getsemani, Gesù sudò grandi gocce di sangue e pregò il Padre di togliergli il calice amaro, confessando ai suoi discepoli: “L’anima mia è molto addolorata, fino alla morte” e invitandoli a “rimanere qui e vegliare con me”.

Anche dopo la Sua gloriosa risurrezione, durante la Sua apparizione ai Nefiti riuniti nel tempio di Abbondanza, leggiamo che Egli “gemeva dentro di sé” mentre pregava il Padre, “turbato a causa della malvagità del popolo della casa d’Israele”.

No, nelle Scritture non ci troviamo di fronte a un Gesù gioviale, sempre allegro, che va avanti nel suo lavoro fischiettando una melodia felice. Quello che troviamo nelle Scritture è un Gesù che promette pace e conforto – o, in altre parole, gioia.

La parola greca più spesso tradotta con gioia nel Nuovo Testamento è chara (χαρά), un termine inteso come “contentezza o conforto che deriva da una profonda comprensione”, “stato d’animo di un’anima in pace” e “calma gioia”.

In questo senso, quindi, la gioia non è uno stato emotivo come la felicità, qualcosa che va e viene al variare delle circostanze.

Piuttosto, la gioia (chara) è più simile a un modo di essere, un modo di vivere e di reagire alla vita derivato dalla confortante certezza che, comunque possano andare le cose al momento, alla fine andranno sempre bene e per il bene, se non altro perché il Figlio di Dio stesso ha promesso che sarà così.

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La gioia e la pace confortante che porta con sé sono il culmine di una vita passata ad andare avanti, anche di fronte alle avversità, alle ingiustizie e al dolore.

Si diffonde nell’anima come un dono che nasce dalla fede e dalla pazienza. A differenza della felicità o del piacere, la gioia non può essere acquistata a buon mercato. 

Vale la pena di notare che, mentre il contrario della felicità è la tristezza, il contrario della gioia non è la tristezza, ma la paura. Forse questo getta una luce importante sull’annuncio dell’angelo ai pastori alla nascita di Cristo:

“Non temete, perché ecco, vi porto una buona novella di grande gioia, che sarà di tutti i popoli”. Allo stesso modo, nelle Scritture leggiamo: “Perciò non temete neppure fino alla morte, perché in questo mondo la vostra gioia non è completa, ma in me la vostra gioia è completa”.

Mentre la felicità è chiaramente quella sensazione meravigliosamente piacevole che si prova quando le cose vanno per il verso giusto, quello della gioia è un dono che arriva attraverso un rapporto intimo con Dio.

Essa ci sostiene nei nostri momenti quotidiani, nei nostri trionfi ed è un dono potente di un Padre celeste amorevole che ci preserva nel mezzo del dolore e della sofferenza.

Tuttavia, questo dono può arrivare solo se mettiamo la nostra vita, il nostro dolore e la nostra sofferenza nelle Sue mani, confidando che Lui saprà cosa è meglio per noi in ogni circostanza.

La forza della gioia

La natura duratura della gioia La gioia è, in questo modo, libertà dalla paura e dal dubbio. E se nella felicità non c’è paura, è perché nella felicità tutto va come vogliamo (che ciò che vogliamo sia egoistico o meno, la felicità non fa distinzioni).

La gioia, invece, resiste alla paura perché nasce dalla fiducia in un Dio che è sempre in grado di trasformare la sofferenza in uno scopo eterno, di dare un senso alle nostre vite e alle nostre tragedie.

La gioia sostituisce la paura quando ci rendiamo conto che, indipendentemente dalla nostra situazione, dalle nostre sfide, dal nostro dolore, non siamo mai soli o dimenticati.

Anzi, nella gioia comprendiamo che qualsiasi sofferenza stiamo affrontando non solo ha uno scopo, ma desideriamo veramente partecipare con Dio mentre lo realizza nella nostra vita e in quella degli altri.

Anche il Salvatore stesso non era sempre felice. Un modo per vedere tutto questo è rendersi conto che, mentre l’emozione della felicità dipende dalla nostra situazione attuale, l’esperienza della gioia supera le circostanze immediate: persiste nonostante la situazione in cui ci troviamo di momento in momento.

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È interessante notare che, sebbene non ci sia paura nell’esperienza immediata, la felicità è comunque fragile e sempre perseguitata dallo spettro della paura – la paura della perdita o del fallimento, la paura che qualche calamità imprevista e incontrollabile possa colpire da un momento all’altro e rovinare la nostra felicità.

Con la gioia, invece, le cose che altrimenti avremmo motivo di temere vengono riconosciute come possibilità di crescita, di approfondimento della fede e della comprensione e, infine, di salvezza, almeno nella misura in cui riponiamo la nostra fiducia in un Dio amorevole e onnipotente. Non si può fare a meno di ricordare le parole, che riecheggiano il profeta Isaia, dell’amato inno Un Fermo Sostegno:

Temer tu non devi, non ti scoraggiar,

Io sono il tuo Dio e son sempre con te.

Conforto ed aiuto non ti mancheran,

Sorretto in eterno da questa mia man.

Nella gioia, la paura perde il suo potere e la presa che l’Avversario cerca di esercitare su di noi si indebolisce, poiché siamo resi liberi di essere in relazione con il Dio che ci ha creati nell’amore per essere in relazione con Lui. Ricordate il messaggio di Padre Lehi a suo figlio Giacobbe:

“Adamo cadde perché gli uomini potessero essere; e gli uomini sono affinché possano provare gioia”.

In ultima analisi, è questo il vero significato della nascita, della vita, della morte e della risurrezione del Salvatore. La gioia è quella quiete che arriva quando sappiamo chi siamo, cosa conta davvero nella vita e in chi possiamo sempre confidare.

“Fermatevi”, leggiamo nei Salmi, ‘e riconoscete che io sono Dio’.

Nella seconda parte di questa breve riflessione sulla felicità e sulla gioia, esplorerò alcuni insegnamenti dell’apostolo Paolo che ritengo abbiano una particolare rilevanza per noi oggi, soprattutto quando ci sforziamo di comprendere l’amore di Dio e il significato della sofferenza.

Questo articolo è stato pubblicato su https://publicsquaremag.org. Questo articolo è stato tradotto da Ginevra Palumbo.

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