Avevo 11 anni, quando mi sono reso conto di non avere amici, avevo una bassa autostima. Era l’inizio della 5° elementare, in una nuova scuola e, in più, tutti probabilmente si sentono comunque in quel modo, quando sono così giovani.

Non essere mai abbastanza

Ma anche se fosse davvero così, questo non ha ammorbidito il colpo che ho ricevuto quando, a San Valentino, i biglietti che gli studenti avevano acquistato per i loro migliori amici, vennero consegnati a tutte le classi, e tutti sembravano averne ricevuti almeno dieci, mentre io ne avevo ricevuto solo uno, ed era da parte di mia madre.

Avevo 17 anni, quando ho sperimentato che provare ad affermarmi usando il gel per capelli, indossando i miei jeans strappati e gli stivali, non era abbastanza per attirare l’attenzione che volevo dai miei compagni di liceo. Se non mi stavano guardando o parlando di me, era come se io non esistessi.

Avevo 21 anni, quando ho saputo che ero il peggiore missionario nella storia della Chiesa.

Non stavo battezzando tanto quanto gli altri, non ero stato chiamato a posizioni di responsabilità, mentre lo erano, invece, i missionari più giovani e, semplicemente, non sentivo il persistente, onnicomprensivo bagliore che, una volta, associavo al lavoro missionario e al vivere in rettitudine e secondo le regole.

Avevo 26 anni, quando mi sono finalmente laureato al college e mi è stato offerto un posto di lavoro, che ho sentito di dover accettare, per sentirmi come un adulto che contribuisce.

E, subito dopo aver accettato il lavoro, in silenzio, avrei voluto tornare indietro e ricominciare da capo. Perché, in quel momento, non ero stato abbastanza coraggioso da dire di no ad un lavoro che, sapevo, non mi avrebbe soddisfatto, anche se mi avrebbe pagato le bollette.

Perché non viaggiavo per il mondo o non facevo un internato presso gli Universal Studios o non giocavo nella NFL o non pubblicavo dei bestseller o non guadagnavo tanto denaro che garantisse un pensionamento anticipato e prospero.

Ero ad una scrivania. E mi sembrava che tutti gli altri stessero vivendo il loro sogno.

La nostra autostima cresce, quando serviamo gli altri

E avevo 28 anni, quando a mia moglie è stata diagnosticata una malattia terminale, ai polmoni.

E, al di là di quanti amici avessi, di quanto mi sentissi di bell’aspetto, di quanto fossi rispettato dai miei colleghi, di quanto fossi alla moda o quanto fossi ricco o meno, la mia comprensione dell’autostima adesso dipendeva dal modo in cui usavo il mio nuovo dolore e le esperienze passate, per acquisire la compassione necessaria per amare veramente qualcuno diverso da me.

E se fosse questo, il segreto? Che cosa succede se impegniamo il vero noi stessi – quello buono e nascosto –  verso coloro che ci sono intorno, ricevendo il tipo di autostima che non è possibile ottenere dai social media o da uno delle migliaia di libri di auto-aiuto, che affollano i nostri scaffali?

Che cosa succede se la compassione verso l’esterno, piuttosto che verso l’interno, fosse il barometro con cui Dio misura il nostro scopo e il nostro valore?

Beh, penso che potrebbe essere davvero così. O, almeno, ne è una forte componente.

Perché non mi sono mai sentito un figlio più degno di Dio, rispetto a quando ho iniziato a lavare i capelli di mia moglie, perché sollevare le braccia per fare lo shampoo ai capelli era diventato troppo difficile, da gestire, per i suoi polmoni.

Non mi sono mai sentito così propositivo e soddisfatto, rispetto a quando ho fatto la scelta più ovvia di prendermi cura e di preoccuparmi, a tempo pieno, di una preziosa e delicata figlia di Dio.

Forse non avere amici, in 5° elementare, significava che io non ero un amico dei miei compagni di classe. Forse non sentirsi attraente, al liceo, significava che avevo bisogno di allontanarmi dal mio specchio e guardare fuori dalla mia finestra.

Forse non ricevere i ruoli di dirigenza di cui sentivo il bisogno, al fine di fare davvero la differenza come missionario, significava che io non stavo servendo pienamente le persone più vicine a me, i miei compagni di missione e le famiglie che erano alla ricerca di noi, per la comprensione del Vangelo.

Forse sentirmi schiavo di un lavoro che non era il più bello o il più redditizio, significava che non avevo ancora capito che sarebbe stato al di fuori delle ore tra le 9 e le 5, che sarei stato più felice e avrei dovuto fare il lavoro più duro e più sacro.

E, forse, il sentirmi tradito dai 78 “mi piace”, su una foto pubblicata che pensavo ne meritasse un milione e mezzo, mi ha fatto oscillare troppo lontano da quello che ho capito, poi, essere l’autostima, e mi ha fatto denigrare la mia identità divina, per un’idea di qualcuno che non sarei mai stato in grado di essere e non sarò mai.

Non siamo un selfie pubblicato su un social network

Adesso ho, ormai, 29 anni. E forse sono troppo giovane per sapere esattamente chi o cosa sono. Ma avendo 29 anni, sono probabilmente abbastanza vecchio per sapere quello che non sono.

Io so che non sono solo un curriculum o una demografia culturale o un tipo di corpo o un genere di tassa o un selfie nel profilo. E io so che non sono nessuna di quelle cose arbitrarie, perché so che sono più che, semplicemente, me stesso.

Io sono quello che sono con mia moglie e i miei amici e la mia famiglia e con i miei vicini e colleghi di lavoro e con gli autisti in autostrada.

Io sono ciò che sono per il cameriere di 54 anni, che pulisce dopo che vado via e mi ringrazia per essere venuto, anche se io gli ho dato poca mancia. Io sono ciò che sono per la persona a cui non piaccio e, soprattutto, per la persona a cui io non sono molto affezionato.

Io sono quello che sono per coloro che dovrei servire di più, per coloro a cui dovrei dare di più, per coloro a cui dovrei scrivere, invece che scrivere questo intervento.

Sono il modo in cui amo gli altri, perché è una delle poche cose che posso davvero controllare in questa vita ed è forse l’unico modo in cui posso concretamente misurare la mia vera autostima.

Ma, soprattutto, io sono il modo in cui io amo gli altri, perché è tutto quello che Dio mi chiede e perché questo è tutto quello che posso darGli. E, forse, questo è abbastanza.

Questo articolo è stato scritto da Henry Unga e pubblicato sul sito lds.org. Questo articolo è stato tradotto da Cinzia Galasso.