L’egittologo tedesco Jan Assmann ha fatto alcune osservazioni interessanti sulle concezioni egiziane della morte e dell’aldilà, nel suo volume Death and Salvation in Ancient Egypt (Morte e salvezza nell’antico Egitto).
La teologia egiziana della vita e della morte
In una sezione del suo libro, Assmann discute di come la morte, per gli antichi egizi, fosse in parte concepita come un isolamento sociale.
Le relazioni, comprese le relazioni tra i membri della famiglia attuale e tra le generazioni familiari, dovevano durare oltre la tomba.
Quindi, la separazione o l’isolamento dalla famiglia, così come dagli dei, era una forma di morte che gli egiziani combattevano con una insieme di rituali e miti.
“Per come la pensavano gli antichi egizi” scrive Assmann “una persona vive in due sfere. Esse sono rispettivamente la “sfera fisica” e la “sfera sociale”.
In entrambe le sfere, il principio di connessione/unione tra le persone contribuisce a dare e mantenere la vita e, di conseguenza, il principio di disconnessione/allontanamento, minaccia e provoca la morte”.
Proprio per questo, nell’antico Egitto si era obbligati a sostenere il culto mortuario delle persone decedute.
Questo comprendeva non solo delle sepolture curate in ogni dettaglio, che equipaggiavano i defunti con l’appropriato corredo funerario (testi funerari, amuleti, sindone, cappelle funebri, vasi canopi, ecc.), ma anche conservando la memoria, la dignità, l’onore e soprattutto il nome del defunto, attraverso il mantenimento del culto funerario.
Sono queste pratiche che hanno portato i popoli moderni (comprensibilmente, ma comunque erroneamente) a credere che gli antichi egizi fossero “ossessionati dalla morte”.
In realtà, gli antichi egizi erano ossessionati dalla vita e dalla resurrezione, e si assicuravano che la vita (compresi tutti i benefici e i vantaggi dell’avere un corpo fisico) sarebbe continuata in eterno, dopo la morte.
Il legame tra padri e figli nella teologia egizia
Come ci spiega Assmann, questa relazione tra i vivi e i morti non solo aveva precedenti in ambito mitologico, con la storia di Osiride e Horus (e con il secondo obbligato a mantenere il culto funerario e il ricordo del primo), ma aveva anche natura di reciprocità, ovvero:
“Figlio e padre dipendono l’uno dall’altro. Si ergono l’uno affianco all’altro, il primo nell’aldilà, il secondo in questa vita. Questo era il tipo di contratto tra le generazioni”.
Poichè il figlio sosteneva il culto funerario del padre, assicurandosi, in questo modo, che il ricordo, l’onore, ed il nome del padre sarebbero sopravvissuti per infinite generazioni, il padre, a sua volta, avrebbe interceduto per suo figlio, a favore degli dei.
Questa intercessione è chiaramente visibile in un’iscrizione del tempio di Abydos commissionata da Ramses II, per suo padre Seti I.
Il testo include un dialogo tra il padre e il figlio che include quanto segue. Ramses dice:
“Vedi, io tengo il tuo nome in vita, ho agito in tua vece!
…Possa tu dire ora a Rha:
‘Concedi una vita piena di feste di giubilo a Re Ramses’.
Ed è un bene per te, che io sia Re.
Un buon figlio è colui che commemora il padre.”
Seti replica:
“Gioisci, figlio mio, che amo, Re Ramses!
…Io dirò a Rha con cuore affettuoso:
‘Concedigli l’eternità sulla terra, come Khepri!’
Io ripeto a Osiride, tanto spesso quanto compaio dinanzi a lui:
‘Concedigli il doppio del tempo in vita, di tuo figlio Horus!’”
Assmann enfatizza il fatto che per gli antichi egizi, almeno a livello metafisico, la morte comprendeva una qualche idea di isolamento sociale e familiare (sono molto famosi i grandiosi racconti egizi del marinaio naufragato e di Sinuhe, i quali temevano entrambi che la loro morte in terre straniere e sconosciute li avrebbe separati dalle loro famiglie e, perciò, li avrebbe influenzati negativamente nell’aldilà). Egli spiega:
“È facile vedere che questo concetto della persona corrisponda perfettamente alla struttura di una religione politeista.
Anche le divinità esistevano come persone, con relazioni reciproche, nelle quali agivano e parlavano l’una con l’altra.
La teologia e l’antropologia delle costellazioni familiari si specchiano e si modellano l’una con l’altra, enfatizzando i legami, i ruoli e le funzioni che collegano i membri del gruppo.
Ciò che vedono come il male peggiore sono i concetti di isolamento, solitudine, indipendenza.
Dal loro punto di vista, essi sono sinonimo di morte, dissoluzione e distruzione. Persino per le divinità, la solitudine è una condizione insopportabile.” (p.57)
Non sorprende più, quindi, che (come ha spiegato un altro egittologo) “per gli egizi, le loro relazioni con il coniuge, i fratelli, le sorelle, i genitori, i figli, i parenti, gli antenati e i discendenti portassero alle conseguenze più grandi” e, quindi, essi erano “convinti che la struttura familiare sarebbe continuata dopo la morte”.
In breve, asserisce Assmann, il culto mortuario egizio aveva “lo scopo di reintegrare il morto in una comunità dalla quale era stato strappato” (p. 63)
La teologia mormone della famiglia
Quanto detto finora, dovrebbe suonare familiare per i Santi degli Ultimi Giorni.
Prendendo spunto dalla tradizione biblica(Malachia 4:5-6; Ebrei 11:40), il profeta Joseph Smith ha insegnato “principi relativi ai morti e ai vivi che non possono essere trattati alla leggera, per quanto concerne la nostra salvezza.
Poiché la loro salvezza è necessaria ed essenziale alla nostra salvezza”. L’unico scopo (il bene finale o il summum bonum come lo ha chiamato Joseph) delle ordinanze del tempio che suggellano e legano intere generazioni, tramite l’opera per i vivi e per i morti (per procura), è di realizzare l’Esaltazione di tutti figli di Dio.
“Poiché noi, senza di loro, non possiamo essere resi perfetti, né possono loro essere resi perfetti, senza di noi.
E neppure possiamo, né noi né loro, essere resi perfetti senza coloro che sono morti nel Vangelo; poiché è necessario, all’apertura della dispensazione della pienezza dei tempi, dispensazione che si sta aprendo ora, che abbia luogo un’intera, e completa, e perfetta unione, e una connessione delle dispensazioni, delle chiavi, dei poteri e delle glorie, e che siano rivelate dai giorni di Adamo fino al tempo presente”.
Da qui possiamo comprendere perché il profeta insistesse sul fatto che l’esaltazione potesse essere ottenuta solo tramite il matrimonio celeste, o tramite la creazione di famiglie eterne che vedrebbero “una pienezza e una continuazione della posterità per sempre e in eterno”.
E perché no? Dopotutto se “la stessa socievolezza che esiste fra noi qui, esisterà fra noi [nel regno celeste], solo che sarà associata alla gloria eterna, gloria di cui ora non godiamo”, allora l’unica spiegazione per queste parole è quella che vede il perpetuarsi dei gruppi familiari, suggellati insieme con legami eterni.
Naturalmente, quanto detto finora non è che una descrizione molto sommaria della teologia funeraria dell’antico Egitto, come anche di quella di Joseph Smith riguardante il ruolo e lo scopo dei suggellamenti, ma spero che, quanto qui riportato, sia stato sufficiente a far comprendere i paralleli esistenti tra le due religioni.
Certamente esistono anche molte differenze, sia nella teologia, che nella prassi. E molte di queste ideologie si possono trovare in altre culture nel mondo.
Il culto degli antenati e dei morti, i rapporti tra i vivi e i defunti, l’intercessione per i vivi da parte di coloro che sono passati oltre e così via, sono tutti elementi presenti in molti sistemi teologici; non sono affatto elementi distintivi degli antichi egizi o dei moderni santi degli ultimi giorni.
Nondimeno, ci sono abbastanza paralleli da rendere la questione degna di nota.
Le somiglianze tra egiziani e santi degli ultimi giorni
Joseph Smith professava di essere un restauratore di ordinanze e verità perdute ed è stimolante sentire un debole eco degli insegnamenti del Profeta di Dio, nelle tombe e nei templi d’Egitto.
Suppongo questa sia, alla fin fine, un’altra ragione per “familiarizzare con tutti i buoni libri e con le lingue e gli idiomi, ed i popoli” e per “ottenere una conoscenza della storia”.
Le somiglianze tra egiziani e santi degli ultimi giorni è stato scritto da Stephen Smoot, pubblicato su plonialmonimormon.org ed è stato tradotto da Stefano Nicotra.
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