Provate ad immaginare una Conferenza Generale senza le storie di aerei del Presidente Uchtdorf, o senza la precisa organizzazione dei discorsi dell’anziano Oaks, o senza le toccanti storie del Presidente Monson sul servizio ai poveri ed ai bisognosi.

Sarebbe come mettere il tuo piatto preferito in un frullatore: il cibo avrà ancora lo stesso valore nutrizionale, ma il sapore e il gusto e la varietà scomparirebbero.

Lo stesso discorso vale per le scritture: parte del loro valore deriva dalla grande diversità di opinioni che, anche se a prima vista possono sembrare contraddittorie, dopo uno studio più attento possono diventare fonte di grande apprendimento.

I fichi d’india

Un po’ come i fichi d’india: uno può pensare che siano nocivi, per via delle spine sulla buccia, ma mangiato è davvero delizioso.

Coloro che leggono le scritture saltuariamente non si rendono conto della varietà di “voci” nelle scritture, cosa che invece chi legge più attentamente può notare.

E dato che le scritture sono un racconto di varie culture, diversi popoli e preoccupazioni, le differenze non sono soltanto differenze di stile di scrittura, anzi: a volte includono persino prospettive diverse su materie di dottrina.

A volte i vari autori sono in pieno disaccordo! Cosa dovrebbe pensare il lettore riguardo a queste diversità?

Di solito vengono viste come una camicia spiegazzata: si prende il ferro da stiro il più velocemente possibile e si fà del proprio meglio per “stirare” queste differenze. Ma è davvero il modo migliore? E se invece trattassimo questi diversi punti di vista non come delle pieghe ma come una trama?

E se queste differenze fossero intenzionali e andrebbero esaminate ed apprezzate? E se cominciassimo a vedere queste divergenze nelle scritture  (sfruttando il mondo tecnologico per fare una metafora) non come un difetto ma come una funzionalità?

Un approccio più aperto alle scritture può fare la differenza

Scritture

Questa è la teoria contenuta nel libro che ho recentemente redatto, intitolato “As Iron Sharpens Iron: Listening to the Various  Voices of  Scripture” (Poiché il ferro affila il ferro: ascoltare alle varie voci delle scritture – ndt).

Ho invitato studiosi di ogni sorta ad immaginare un incontro tra due persone che potrebbero non essere d’accordo riguardo un argomento importante, secondo ciò che sappiamo dalle scritture.

Mi sono incredibilmente stupita nel leggere i dialoghi che hanno scritto, pieni di riflessioni penetranti.

Nonostante fosse tutto frutto della loro immaginazione, essi hanno tentato di avvicinarsi più possibile ai fatti descritti nelle scritture mentre cercavano di esaminare e sottolineare il punto di tensione tra le due parti.

Loro non hanno “stirato le differenze”, ma hanno “analizzato la trama”.

Per esempio, Mark T. Decker ha scelto Giacobbe (del Libro di Mormon) e Joseph Smith, intavolando un discorso incentrato sulla poligamia (confrontando Giacobbe 2 con D&A 132); ma alla fine, la discussione non è affatto riguardo alla poligamia, quanto più invece discute il nostro pensiero riguardante regole ed eccezioni, e quindi tratta la seguente domanda:

“Fino a che punto l’eccezione è più importante della regola?” È una domanda che vale la pena approfondire.

Heather Hardy, invece, immagina una discussione tra Giuseppe d’Egitto e Nefi riguardo al problema della rivalità tra fratelli e la possibilità di riconciliazione.

Ma, con l’evolversi della discussione, sorge un argomento molto più profondo: il ruolo delle aspettative nel gestire le nostre emozioni e le nostre risposte. Ogni tema nel libro esplora ogni argomento in modo simile.

Spero che questo libro spronerà i Santi degli Ultimi GIorni ad “analizzare la trama”, confrontando le diverse voci nelle scritture. Un esempio è: “Abrahamo e Giobbe: la sofferenza”, Di Michael Austin.

Due giganti delle scritture a confronto

abrahamo-isacco-sacrificioTra tutte le storie nella Bibbia Ebraica, forse quella che può lasciare più perplessi tra tutte è l’Akedah, cioè la storia di Isacco legato sull’altare, contenuta in Genesi 22:1-19.

Quando Dio comanda ad Abrahamo di sacrificare suo figlio Isacco, lui lo lega, lo mette sull’altare, e prende un coltello in mano per sacrificarlo, senza una parola di protesta verso l’Onnipotente.

Naturalmente la storia ha un lieto fine: un angelo appare per fermare la mano di Abrahamo, e il Signore procura un montone per il sacrificio.

Nonostante ciò, il racconto non risponde a tutte le domande, tra cui:

“Perché mai Dio ha comandato ad un uomo di sacrificare suo figlio, anche se solo come prova, per poi persino ricompensato  per essere disposto a farlo?” e “Perché Abrahamo avrebbe dovuto umilmente seguire gli ordini di Dio, invece di ribellarsi e rifiutarsi di ammazzare suo figlio?”

Coloro che hanno scritto questo libro hanno investito parecchio tempo ed energia per cercare di spiegare ciò che sembra essere, a chi lo legge per la prima volta, una richiesta immorale da parte del SIgnore, e un comportamento irragionevole da parte di un profeta.

Naturalmente i Cristiani leggono il simbolismo contenuto nella storia: Dio ha chiesto ad Abrahamo di sacrificare suo figlio a simbolo del sacrificio del Padre, di Suo Figlio Gesù Cristo ed anche nel pensiero ebraico, l’Akedah è diventato un simbolo sia di enorme fede che dei sacrifici che sono sempre stati un requisito del popolo dell’alleanza di Dio.

Ma nonostante tutto, le domande rimangono.

E se queste scritture ci insegnassero qualcosa di inaspettato?

Nel libro “Subversive Sequels in the Bible” (Seguiti sovversivi nella Bibbia – ndt), scritto nel 2009, la studiosa ebraica Judy Klitsner esprime un’idea sull’Akedah degna di nota.

E se (dice lei) Dio si era sbagliato a chiedere ad Abrahamo di sacrificare suo figlio, anche se era una prova, ed Abrahamo si era sbagliato a seguire il comandamento?

E se gli scrittori ebraici col senno di poi si fossero resi conto che la storia insegnava il messaggio sbagliato, e quindi crearono un “seguito sovversivo” alla storia, e cioè una variante del racconto originale strutturata per correggere tutto ciò?

Klitsner crede che questo sia esattamente ciò che è accaduto, e che il “seguito sovversivo” dell’Akedah sia il libro di Giobbe.

Lo scrittore del libro di Giobbe, come Klitsner ci fa notare, include consapevolmente elementi superficiali della storia di Abrahamo nella narrativa.

Per esempio, molti dei parenti di Abrahamo di cui sappiamo i nomi (come Uz, Buz, e Cased) li ritroviamo nella storia di Giobbe.

Famiglia Giobbe

Più importante, però, è il fatto che entrambe le storie contengono “Uomini timorosi di Dio che affrontano una minaccia mortale da Dio verso la loro progenie” (Judy Klitsner, Subversive Sequels in the Bible: How Biblical Stories Mine and Undermine Each Other (Philadelphia: Jewish Publication Society, 2009), xxi; – ndt).

Nell’affrontare le loro crisi, questi due uomini rappresentano due forme di fede diametralmente opposte. La fede di Abrahamo si basa su di una fiducia perfetta in un Dio con il quale ha stipulato una solenne alleanza.

La fede di Giobbe, invece, è più simile ad un rassegnarsi furiosamente ad un potere superiore, con forse una punta di fede in una giustizia finale, tipo quella suggerita da Tennyson nel poema in Memoriam:

Nonostante tutto crediamo che il bene
Sia la meta finale che segue la malattia,
I dolori fisici, le pecche della volontà,
I difetti del dubbio, e la corruzione del sangue;

Che niente cammini senza una meta;
Che nessuna vita debba essere distrutta,
O gettata nel vuoto come spazzatura,
Dal momento che Dio creò l’intero grandioso edificio del mondo.

Il seguente dialogo immagina una conversazione tra Giobbe ed Abrahamo, secondo le idee di Klitsner.

Giobbe, che ha perso dieci figli a causa dei capricci di una divinità volubile, affronta Abrahamo per aver accettato passivamente, e anzi per essere stato persino disposto a seguire l’ingiusto comandamento di Yaweh di sacrificare suo figlio, mentre Abrahamo insiste che la fede dev’essere qualcosa di più che una furiosa rassegnazione ad un potere superiore.

Giobbe e Abrahamo: un dialogo romanzato tratto dalle scritture

Giobbe: Non posso tollerare ciò che ha fatto a suo figlio, signore.

Abrahamo: Ma sicuramente sa, amico mio, che non ho fatto assolutamente niente a mio figlio. Isacco ha vissuto fino a tarda età ed ebbe molti discendenti.

Giobbe: Ma lo ha legato, lo ha posato su di un altare, e ha predisposto il suo coltello al massacro. Senza proferire parola di ribellione alcuna.

Era disposto a sacrificare di sua spontanea volontà ciò che è stato strappato via da me perché ero troppo debole per impedirlo. Dio non mi chiese mai se ero disposto a vedere i miei figli morti; non mi diede mai una possibilità di rifiutare il Suo comando.

Abrahamo: E se lo avesse fatto? E se Dio le avesse chiesto di…

Giobbe: Non avrei mai fatto del male ad alcuno dei miei figli. Mai. Se Egli mi avesse commandato di ucciderli, mi sarei rifiutato. Avrei sofferto di tutto piuttosto che permettere che venga fatto del male ad anche solo uno dei miei figli.

Ma furono uccisi tutti comunque, e io ho sofferto comunque.

Abrahamo: Suvvia, se l’è cavata abbastanza bene. Se ricordo bene, lei diventò più ricco che mai, e per di più Dio le restituì i suoi figli.

Giobbe: Ho capito bene? Sta davvero insinuando che i figli possono semplicemente essere rimpiazzati, come capre?

Abrahamo: Beh, non esattamente. Ma Dio mise tutto a posto con lei, non è vero?

Giobbe: Ho avuto dieci figli in più, se è questo ciò che intende. Ma ciò non mise “tutto a posto”. Significa semplicemente che Dio ha ucciso la metà dei miei figli, invece che tutti quanti.

Non riuscirò mai a dimenticare, o a riprendermi dal dolore dei dieci fanciulli che Dio mi portò via in un giorno solo.

Abrahamo: Ma almeno ha avuto figli quando era giovane abbastanza da goderseli. Mia moglie è stata sterile fino a quando ho compiuto cent’anni; e persino la sua serva, Hagar, non concepì fino a quando non ebbi compiuto ottantasei anni.

Ho vissuto quasi tutta la mia vita senza la benedizione di avere un figlio, nè una possibiltà di avere una posterità. Isacco era il miracolo dalla mia vita.

Giobbe: E nonostante ciò era disposto a uccidere questo grande miracolo con le sue proprie mani? Questo io non lo potrò capire mai. Nè perdonare.

Abrahamo: Questo è perché non capisce davvero che cosa significa avere fede in Dio.

Giobbe: Come osa! Non mi ha Dio chiamato il Suo più fedele servitore sulla Terra? Non è forse Egli apparso in tutta la Sua gloria e dimostrato il suo grandioso potere?

E non mi sono forse io pentito nel sacco e nella cenere quando Egli mi contraddisse? In tutte queste cose ho dimostrato la mia fede in Dio.

Abrahamo: Ha dimostrato la sua sottomissione a Dio, non è la stessa cosa. Ha imparato ad inginocchiarsi dinnanzi ad un potere superiore. Ma non ha mai imparato a confidare nella Sua bontà; e senza fiducia, non ci può essere vera fede.

Giobbe: Ho visto ben poco della Sua bontà.

Abrahamo: Ha visto tanto quanto ogni uomo che ha mai vissuto. Lei era l’uomo più grande dell’Est, con ricchezze, terre, e famiglia.

E persino dopo che ha perso tutto, Dio l’ha benedetta di nuovo. Non si rende conto quante persone hanno vissuto in questo mondo senza alcuno dei comfort di cui lei ha goduto per tutta la sua vita eccetto che per pochi mesi?

Dio le ha semplicemente permesso di provare per pochi mesi parte della miseria che definisce l’intera esistenza di molte persone.

Giobbe: Lei parla eloquentemente delle sofferenze altrui, ma quando ha mai sofferto di persona? Anche lei era ricco, e Dio ha camminato dinnanzi a lei per tutta la sua vita spianandole il cammino.

Non ha mai sofferto come me. E quando Dio le ha detto di massacrare suo figlio, non si è neanche lamentato. Lo ha legato e scaricato sull’altare come un sacco di lenticchie.

Abrahamo: Lei parla di cose che non può capire. Legare Isacco è stata la cosa più terribile che io potessi mai immaginare. Avrei preferito mille volte essere stato comandato di massacrare me stesso.

Giobbe: E allora perché non ha lottato? Perché non ha preteso che Dio si spiegasse? Perché ha semplicemente scelto di seguire il piano divino di spargere lo stesso sangue che scorre nelle sue vene?

Abrahamo: Perche confidavo in Dio. Questa è fede. Ho lottato con Lui, una volta, quand’Egli si accingeva a distruggere le città delle pianure.

L’ho convinto a risparimare Sodoma per amor di dieci persone rette, ma quando le ho cercate in quella grande città, non ne ho trovata neanche una.

Così mi sono reso conto che la distruzione, terribile ai miei occhi, era agli occhi di Dio un atto di pietà verso generazioni future. A Quel punto ho finalmente imparato a confidare in Dio.

Giobbe: Ma tuo figlio?

Abrahamo: È questo il punto.  Dovevo avere fiducia in Dio per ogni cosa, persino quelle difficili, o non avrei davvero avuto fede.

Inoltre io avevo un alleanza con Dio, in cui mi aveva promesso che i miei discendenti sarebbero stati più numerosi delle stelle del cielo, e della sabbia del mare.

Io sapevo che Dio avrebbe mantenuto la sua alleanza. E sapevo che Isacco sarebbe stato il mio erede.

Giobbe: Sta dicendo che sapeva che Dio avrebbe mandato un angelo per fermare la sua mano?

Abrahamo: Non sapevo come Dio avrebbe mantenuto la Sua parola; sapevo solo che l’avrebbe fatto. Dio fece un alleanza con il mio casato, e io sapevo che Dio non poteva, non voleva violare tale alleanza. Questa era, ed è l’essenza della mia fede.

Giobbe: Anche io la pensavo così, una volta. Non mi sono lamentato quando ho perso le mie ricchezze o quando il mio corpo si ricoprì di piaghe.

Tutto ciò che volevo sapere era perché mi era permesso di soffrire; volevo sapere perché Dio avesse steso la Sua mano contro di me.

Gli uomini che vennero a confortarmi parlavano proprio come lei. Mi rassicurarono che Dio aveva un piano per me e che tutto sarebbe andato per il meglio, ma ciò non accadde. Dio mi chiedette di dare ogni cosa, come chiese a lei. Ma non mi fu mai permesso di capire perché.

Abrahamo: Ma alla fine, anche lei è stato giustificato dinnanzi a Dio, come me. Entrambi siamo stati ricompensati per aver avuto fede.

Giobbe: Ma noi abbiamo due situazioni completamente diverse. Lei è stato ricompensato per aver fatto ciò che Dio le ha detto di fare.

La sua obbedienza è facilmente collegabile al benessere materiale della sua famiglia. Sapeva che Dio la stava mettendo alla prova, e ha persino capito la natura della prova.

Alla fin fine, è una semplice storia di causa ed effetto: ha obbedito ai comandamenti di Dio, Lui l’ha benedetta.

Ah, e comunque, suo figlio non doveva morire davvero. Stavamo solo scherzando.

Abrahamo: Ma sicuramente lei crede che Dio benedice coloro che Lo obbediscono, e che punisce coloro che non lo fanno. Cosa c’è di più basilare di questo, nella fede?

Giobbe: Le cose non sono andate così per me. Ero ricco e felice, poi ero povero e triste, poi ero ricco e felice di nuovo. Ma non sono mai stato consolato dal sapere il perché.

Tutto ciò che Dio mi disse è stato: “Puoi fare il mondo come l’ho fatto io, Giobbe? Puoi pescare il Leviatano con un amo? Sapresti rinchiudere un ippopotamo in un boudoir da sposa?”

Dio ha grandemente manifestato il Suo potere, ma non ho mai visto nulla che potrebbe almeno suggerirmi un nesso tra ciò che ho fatto e ciò che ho ottenuto. Non ho mai compreso la “giustizia divina” se non come una forza di potere incontrastato.

Abrahamo: Interessante. Ma devo credere che, in qualche modo, Dio aveva un piano per lei e che, essendo onniscente, sapeva che ogni cosa sarebbe andata per il verso giusto.

Giobbe: Questo è quello che i miei amici continuavano a ripetermi di continuo: “Dio ha un piano”; “ci sono delle buone ragioni per il tuo dolore che non capisci”; “Dio non può essere ingiusto”.

Abrahamo: E avevano ragione, no? Dio la ha invero benedetta.

Giobbe: Sì, ma le sue benedizioni erano tanto casuali quanto le sue maledizioni. Egli non mi disse mai cosa ho sbagliato per meritarmi la mia sofferenza, né mi disse mai cosa ho fatto giusto per meritarmi la mia ricompensa.

Non è stata una cosa del tipo: “Ascolta Dio e troverai un montone nel boschetto”. Io ho obbedito a Dio tanto quanto te, ma i miei figli sono morti comunque. Dio non mi mandò mai nessun montone.

Abrahamo: Ma comunque Dio l’ha giustificata nonostante tutte le sue lamentele, ed ha rigettato i tuoi amici che sono stati i Suoi più grandi difensori.

Giobbe: Vero. Ed è per questo che credo che Egli non avrebbe detto nulla se avesse dubitato un pochino dei Suoi ordini prima di legare suo figlio.

Semmai, la mia situazione mostra che Dio preferirebbe avere un onesto dubitatore che un seguace senza cervello. Non pensa che la avrebbe benedetta come ha benedetto me, se avesse preteso  giustizia per suo figlio come io per i miei?

Abrahamo: ma noi siamo stati messi alla prova per motivi diversi. Io stavo stabilendo un’alleanza con Dio a favore di centinaia di future generazioni. La sua prova coinvolgeva solo lei e i suoi amici. Per quel che ne sappiamo, non era nemmeno Ebreo.

Giobbe: Beh, anche questo è vero. Ho sempre pensato di essere più un Universalista. Voglio dire, cosa c’è di più universale del soffrire?

Abrahamo: Ma la sua sofferenza non era nel contesto di un’alleanza.

Non ne era parte tanto quanto i Persiani e gli Egizi che raccontarono la sua storia. La mia venne come il risultato delle promesse tra me e Dio, e ha mostrato ai miei discendenti che Dio si aspetta molto da coloro che chiama il Suo popolo, e che ci si può sempre fidare di Lui, anche quando sembra che ci sta abbandonando.

I miei figli avevano davvero bisogno di imparare ciò per sopravvivere come popolo, in un mondo che gli avrebbe inflitto molto peggio del sacrificio di un singolo figlio.

Giobbe: Beh, anch’io gli ho mostrato qualcosa. Gli ho mostrato che non possono comprendere Dio abbastanza da usare le circostanze materiali di una persona per giudicare il loro valore morale.

Gli ho mostrato che le vie di Dio sono misteriose e imperscrutabili.E soprattutto gli ho mostrato che, nonostante non possono controllare ciò che Dio fà, possono certamente lamentarsi di Lui a tutti coloro che sono disposti ad ascoltare.

Abrahamo: Sì, amico mio, sono d’accordo. Magari un po’ troppo bene.

Giobbe: Ci vuole talento.

Abrahamo: Assolutamente.

*****

Conclusione: la trama nascosta nelle scritture

pregando scritture

Alla fine, come possiamo vedere, Giobbe e Abrahamo sono più simili di quanto sembrano. Si ergono insieme come due grandi esempi di un Dio che escogita delle prove strazianti per coloro che Lo seguono.

Ma, nonostante le loro prove furono strutturalmente simili, le loro reazioni furono molto diverse: Abrahamo accetta tutto, mentre Giobbe alza il pugno al cielo e dubita della giustizia di Dio.

Ciò che rende queste due storie interessanti, però, è che la risposta di Dio ad Abrahamo è quasi identica alla risposta a Giobbe. Egli loda Abrahamo per la sua fedeltà e lo ricompensa con le promesse dell’Alleanza, ma  anche Giobbe viene lodato.

Dopo aver tuonato a quest’ultimo dal turbine per un po’, Dio si rivolge a Eliphaz, Bildad e Zophar – gli amici che hanno attaccato Giobbe e difeso Dio per la maggior parte del libro – e dice:

“L’ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe” (Giobbe 42:7).

Le ultime parole di Dio sono particolarmente degne di nota, poiché quasi tutte le parole di Giobbe sono state dirette a Dio in segno di sfida.

Come ci mostra Klitsner, questo indica un importante cambiamento nella prospettiva divina. “Dall’Akedah al libro di Giobbe”, scrive, “le risposte di Dio all’eroe tormentato sono drasticamente cambiate.

Nonostante Dio si congratula con Abrahamo per l’aver accettato il volere divino senza dubitare nulla, egli loda Giobbe per il suo continuo domandarsi del perché delle azioni di Dio” (Klitsner, Subversive Sequels in the Bible, xxiii; italiano del traduttore)

Sia Giobbe che Abrahamo sono stati messi alla prova da Dio, ed entrambi sono stati promossi con 100 e lode, nonostante le loro risposte non potevano essere più diverse. Abrahamo obbedisce senza discutere, mentre Giobbe si lamenta energicamente.

Dato che Dio ha lodato entrambi, allora forse la Mente Divina è più aperta, e più disposta a cambiare, di quanto tre millenni di credenti hanno capito.

Questo articolo è stato scritto da Julie Smith, pubblicato su ldsmag.org ed è stato tradotto da Stefano Nicotra.