I membri della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni sono generalmente persone felici. Siamo conosciuti per i nostri grandi cuori, i sorrisi luminosi e la volontà di portare l’insalata di patate a chiunque ne abbia bisogno.
Ma che dire di quando la vita spezza la nostra allegra disposizione?
Permettiamo a noi stessi di provare emozioni umane profonde o sentiamo la pressione di indossare un sorriso anche quando il mondo si sta sgretolando intorno a noi?
Quando a mio marito è stato diagnosticato un sarcoma all’età di 28 anni, sono stata sopraffatta da un vortice di emozioni. Ero devastata, frustrata, confusa, affranta, ansiosa e terrorizzata.
Gli unici malati di cancro sotto i 60 anni che conoscevo erano quelli di alcune storie che avevo sentito e che si concentravano sull’essere coraggiosi, positivi e felici, nonostante le difficoltà.
Eppure, ero lì, a singhiozzare sul letto. Riuscivo a malapena a distinguere la sagoma di mio marito attraverso le lacrime. Non mi sentivo coraggiosa, positiva o felice.
Subentra un’altra emozione: il senso di colpa
Sono arrivata alla conclusione che stavo sbagliando tutto. Dovevo affrontare questa prova impegnativa, abbastanza drammatica da essere citata durante una riunione al caminetto e alle conferenze di palo, ma il mio atteggiamento era tutt’altro che stimolante.
Chi sarebbe stato ispirato da questo pozzo di lacrime? Chi avrebbe voluto ascoltare la storia della donna che ha gridato “Odio il cancro!” con il viso sprofondato nel cuscino senza un grammo di grazia o dignità? Perché non ho agito con ottimismo e forza? Mi mancava la fede?
Dal momento della diagnosi, non ho mai smesso di pregare. Non dubitavo che Dio mi ascoltasse e la mia testimonianza era salda. Perché non avevo la forza d’animo di cui sentivo tanto parlare?
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Perché non potevo sorridere ad ogni appuntamento con la chemioterapia e scrollarmi di dosso una giornata piena di TAC, trattamenti con radiazioni e trasfusioni di sangue? Perché non avevo l’atteggiamento allegro che i Santi degli Ultimi Giorni “dovrebbero” portare ovunque?
Anche Gesù pianse
Poi ho pensato alla vita del mio Salvatore. Una delle scritture più brevi, divenne una delle più potenti: Gesù pianse. Quando Lazzaro morì, Gesù non sorrise, non portò del cibo e non calmò le preoccupazioni di tutti. Egli pianse.
Non disse a Maria e Marta che se fossero state più forti o più fedeli, non avrebbero provato dolore. Ma pianse con loro. Naturalmente sapeva che la morte era temporanea, ma non aveva messo da parte le emozioni.
Provava una profonda tristezza. Dopo la morte del suo amico, aveva buone ragioni per piangere e non si sentiva in colpa per questo.
Gesù Cristo ha sperimentato una vasta gamma di emozioni.
Si è sentito frustrato quando il suo tempio non venne trattato con rispetto, deluso quando le persone non credevano ai suoi insegnamenti, affranto quando fu tradito e scoraggiato quando i Suoi apostoli mancarono di fede.
Egli ha provato un dolore intenso, sia fisico che emotivo. Ha persino chiesto sollievo dall’agonia dell’Espiazione.
Tuttavia, per qualche motivo, siamo tentati di pensare che dovremmo essere sempre felici. Ci aspettiamo di affrontare le prove con impazienza e di essere raggianti di gioia per il dolore e la malattia.
Ci definiamo deboli quando non manteniamo il nostro atteggiamento gioviale. Non è giusto avere questa aspettativa su noi stessi! La nostra reazione alle prove non deve necessariamente corrispondere a quella di qualcun altro o essere riposta ordinatamente in una scatola.
Possiamo abbracciare le nostre emozioni, anche quelle difficili, perché favoriscono davvero la crescita. La tristezza può portarci all’empatia. La frustrazione può portarci a difendere la ragione. Il disagio può portarci alla preghiera. E il dolore può condurci a Cristo.
Coloro che soffrono non mancano di fede
Mentre guardo la mia faccia solcata dalle lacrime allo specchio, mi rendo conto che va bene così. Va bene che io sia devastata dal fatto che mio marito abbia il cancro.
Va bene che io sia preoccupata per il nostro futuro. Va bene che io mi senta frustrata quando i suoi farmaci non funzionano o delusa quando passiamo le vacanze in ospedale.
Va bene che piangiamo insieme mentre lo imbocco per dargli della gelatina, e gli avvolgo il corpo con delle bende. Va bene che supplichiamo Dio di allontanare da noi questo calice, se è in linea con la Sua volontà.
Niente di tutto questo corrisponde ad una mancanza di fede.
Se le lacrime di Cristo hanno ispirato molti, anche le mie possono farlo. Il Suo cuore era addolorato nel vedere i Suoi cari soffrire, proprio come il mio cuore soffre quando mio marito geme di dolore in un letto d’ospedale.
Cristo probabilmente odiava la lebbra tanto quanto io odio il cancro. Le Scritture non dicono mai che Cristo sorrise di fronte alle prove dolorose.
Alcuni giorni sono la prima a sorridere e ridere nella sala d’attesa dell’ospedale, ma altri giorni ricordo a me stessa che Gesù pianse, e che va bene se lo faccio anche io.
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Affrontando i miei sentimenti a testa alta, trovo la vera gioia. Non critico più me stessa per le reazioni emotive alle situazioni difficili. Non mi aspetto più di essere sempre positiva ed allegra, indipendentemente dalle circostanze dolorose.
Sto usando le mie esperienze e le mie emozioni per risollevare gli altri attraverso la comprensione e l’empatia.
Il mio dolore, la mia angoscia, la mia tristezza, la mia rabbia, la mia frustrazione, la mia preoccupazione e la mia delusione mi stanno aiutando ad imparare, a crescere e a sostenere le persone attorno a me.
Poiché Gesù Cristo ha permesso a sè stesso di provare emozioni profonde, so che anche io posso farlo.
Gesù pianse e anche noi possiamo farlo: ecco perché non dobbiamo essere sempre felici è stato originariamente scritto da [nome dell’autore] ed è stato pubblicato su ldsliving.com, intitolato Jesus Wept, and So Can I: Why We Need to Realize We Don’t Always Have to Be Happy. Italiano ©2020 LDS Living, A Division of Deseret Book Company | English ©2020 LDS Living, A Division of Deseret Book Company.
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