Quando Dio apparve a Mosè sul Monte Sinai dopo la fuga degli Israeliti dall’Egitto, era ovviamente diverso da ciò che gli Israeliti si aspettavano. Con il senno di poi, è facile capirne il motivo.
Gli Israeliti erano rimasti sotto il dominio egiziano per circa quattro secoli, e per parte di quel periodo erano stati schiavi di un faraone che “non aveva conosciuto Giuseppe” (Esodo 1:8).
Perché gli Israeliti si rifiutarono di incontrare Dio faccia a faccia
Non ci sono parole sufficienti per esprimere quanto forte fu l’impatto che vivere in Egitto ed essere schiavi del faraone ebbe sugli Israeliti.
Il teologo Walter Brueggemann, prendendo in prestito una frase dalle scienze sociali, descrive l’Egitto come totalizzante, nel senso che gli Israeliti semplicemente non potevano concepire una vita al di fuori della cultura egiziana in cui erano immersi.
In sostanza, non erano solo un popolo senza via d’uscita, ma non potevano nemmeno immaginare l’idea di “una via d’uscita”.
Eppure, nonostante fossero sotto il dominio di una delle più grandi potenze militari del mondo, Dio insinuò l’idea della liberazione e dimostrò un potere divino che non poteva essere eguagliato, nemmeno dal faraone.
Dio liberò gli Israeliti e coloro che viaggiavano con loro (Esodo 12:38) dal dominio egiziano.
E così Dio li guidò fuori dall’Egitto… verso un deserto implacabile, che fu un’altra lotta profonda. Anche se liberati dal vincolo fisico, gli Israeliti sembravano avere difficoltà a liberarsi dall’influenza totalizzante e più profonda dell’Egitto.
Creare una nuova comunità, basata su un nuovo modo di essere, si rivelò difficile. La loro situazione fisica era cambiata nel giro di poco tempo, ma il loro approccio mentale, emotivo e spirituale alla vita era ancora un lavoro in corso.
Più di una volta, gli Israeliti si lamentarono della loro situazione nel deserto e si lamentarono apertamente della loro liberazione, preferendo chiaramente la prevedibilità del pane da mangiare (anche se significava schiavitù) all’imprevedibilità del seguire una nube nel deserto (anche se significava che Dio era con loro).
Nei nostri deserti moderni, molti di noi probabilmente scambierebbero (o stanno attualmente scambiando) un po’ di vera libertà per un po’ di prevedibilità fisica.
Tuttavia, a dispetto di tutto ciò, Dio rimase con Israele e alla fine gli Israeliti arrivarono al Monte Sinai.
Probabilmente emozionato e nervoso allo stesso tempo, il popolo d’Israele si preparò a incontrare Dio. Colui che era più potente della potenza più forte sulla Terra sarebbe sceso e avrebbe parlato direttamente al popolo.
Ma, come abbiamo detto all’inizio, quello che Israele ottenne non era apparentemente ciò che si aspettava. I
l libro di Esodo racconta che “cominciarono dei tuoni, dei lampi, apparve una fitta nuvola sul monte, e si udì un fortissimo suono di tromba; e tutto il popolo che era nel campo, tremò… e tutto il monte tremava forte…
Il suono della tromba andava facendosi sempre più forte” (Esodo 19:16, 18-19).
Tutto questo non era nei patti. Non si trattava di una divinità “comune”… era qualcosa di più.
In quel momento, Israele realizzò cosa significasse incontrare YHWH: incontrare Dio, questo Dio, significava entrare in contatto con il potere dell’universo; significava ritrovarsi spogliati del proprio ego e vedere la fragilità della propria esistenza messa a nudo; significava trovarsi faccia a faccia con Colui Che Ero/Sono/Sarò e Chi Ero/Sono/Sarò, la cui voce faceva letteralmente tremare le montagne. Ed era troppo.
Il racconto in Esodo continua dicendo: “Ora, tutto il popolo udiva i tuoni, il suono della tromba e vedeva i lampi e il monte fumante.
A tal vista, tremava e se ne stava lontano. E disse a Mosè: ‘Parla tu con noi, e noi ti ascolteremo; ma non ci parli Dio, affinché non moriamo’” (Esodo 20:18-19).
Di fronte all’opportunità di incontrare Dio faccia a faccia, gli Israeliti si tirarono indietro. In sostanza, dissero: “Mosè… è troppo, ed è un po’ spaventoso se vogliamo essere sinceri…
E se parlassi tu con Dio e ci dicessi solo quello che ti dice?” Mosè cercò di convincerli che erano pronti, che ce l’avrebbero fatta. È riportato che Mosè rispose:
“Non temete, poiché Dio è venuto per mettervi alla prova, e affinché il suo timore vi stia dinanzi, e così non pecchiate” (Esodo 20:20).
Ma gli Israeliti non ne volevano sapere. Invece di condividere con Mosè l’esperienza teofanica diretta, “Il popolo dunque se ne stava lontano; ma Mosè si avvicinò alla caligine dov’era Dio” (Esodo 20:21).
Penso che criticare facilmente gli Israeliti per la loro reazione sia un errore. Ci piace pensare che se ci fossimo stati noi al Monte Sinai, saremmo rimasti ad ascoltare.
Molti credenti, compresi i membri de La Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, abbracciano l’idea di incontrare Dio di persona attraverso lo Spirito Santo (e un giorno anche di presenza).
Raccontiamo a noi stessi che ascoltando ogni giorno lo Spirito nella nostra vita abbiamo già un contatto quotidiano con Dio.
Naturalmente, c’è del vero in ciò. È un dato di fatto, e le Scritture lo indicano chiaramente, che Dio interagisce con il creato attraverso lo Spirito Santo.
Ma questo è anche un falso parallelismo, perché non è ciò che accadde sul Monte Sinai. Dio non disse: “Sal al Monte Sinai dove la ‘voce dolce e sommessa’ ti guiderà”.
Dio disse: “Vieni al Monte Sinai per avere un’esperienza diretta con me”. Dio stava offrendo la Torah (la legge morale, etica, legale e rituale che avrebbe trasformato un gruppo di persone precedentemente schiavizzate in una comunità santa) direttamente al popolo di Israele, non semplicemente attraverso lo Spirito, ma direttamente; non attraverso sussurri, ma con la Sua stessa voce.
Interagire con Dio in modo diretto significava essere disposti ad abbracciare tutto ciò che comporta una tale esperienza: la terra che trema, lo scuotersi delle montagne, le trombe sonanti, il fumo che sale e il cambio di paradigma.
Questa è un’idea completamente diversa dall’ essere aperti all’influenza dello Spirito Santo, e quindi penso che qualsiasi critica che potremmo rivolgere agli Israeliti per la loro esitazione dovrebbe essere considerata con maggior attenzione.
Il fatto è che di fronte alla realtà della presenza diretta di Dio, il popolo di Israele preferì avere un intermediario; preferirono che Mosè trasmettesse i messaggi di Dio.
Non sono sicuro che per molti aspetti siamo poi così diversi.
Qualcosa tra noi e Dio
Questa premessa è importante per comprendere la storia del vitello d’oro. Come hanno sottolineato i dirigenti de La Chiesa di Gesù Cristo (e molti altri), la storia del vitello d’oro è una storia sull’ “idolatria” (vedere, ad esempio, l’articolo di Spence W. Kimball del 1976 “I Falsi Dei che Adoriamo“).
Ma l’idolatria nel contesto della storia del vitello d’oro ha sfumature di significato che spesso vengono trascurate.
Il tipo di idolatria che vediamo in questa storia non riguarda tanto l’adorazione di una statua in sostituzione di Dio, riguarda la volontà di adorare Dio tramite un intermediario.
Il popolo d’Israele rinunciò alla possibilità di interagire direttamente con Dio. Si concentrò sulla cosa sbagliata anche quando credeva di adorarLo nel modo giusto.
Quando Mosè lasciò gli Israeliti e si addentrò “nella caligine” per parlare con Dio, fu via per un po’. Dopo essere stati condotti fuori dalla schiavitù e alle pendici di una montagna che ora tremava sotto il peso della presenza di Dio, sembrava che Mosè, il loro intrepido condottiero, fosse scomparso nel nulla.
È qui che una lettura attenta del testo è importante per comprendere ciò che accadde dopo.
Ora il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte, si radunò intorno ad Aaronne e gli disse:
“Orsù, facci un dio, che ci vada dinanzi; poiché, quanto a Mosè, a quest’uomo che ci ha tratto dal paese d’Egitto, non sappiamo che ne sia stato”… il quale li prese dalle loro mani, e, dopo averne cesellato il modello, ne fece un vitello di metallo fuso.
E quelli dissero: “O Israele, questo è il tuo dio che ti ha tratto dal paese d’Egitto!”.
Quando Aaronne vide questo, eresse un altare davanti ad esso, e fece un bando che diceva: “Domani sarà festa in onore dell’Eterno [YHWH]!”.
E l’indomani, quelli si levarono di buon’ora, offrirono olocausti e recarono dei sacrifici di riconciliazione; e il popolo si adagiò per mangiare e bere, e poi si alzò per divertirsi. (Esodo 32: 1, 4-6).
Ciò che appare chiaro da questo testo è che gli Israeliti non stavano adorando un vitello d’oro al posto di Dio.
Non era mai stata questa l’intenzione; dopotutto, la presenza di Dio era ancora immediatamente visibile sul Monte Sinai. Conoscevano la differenza tra Dio e il vitello d’oro.
Infatti, dopo la costruzione del vitello, fecero una “festa in onore di YHWH” (il nome di Dio rivelato a Mosè al roveto ardente) e il giorno successivo gli Israeliti “offrirono olocausti e fecero sacrifici di ringraziamento”, che era in linea con il culto di YHWH.
Ogni segno fa pensare che continuassero a credere e adorare YHWH. Piuttosto, il vero problema che gli Israeliti stavano cercando di risolvere con il vitello d’oro era cosa fare, dato che “Mosè tardava a scendere dal monte”.
Ricordiamo che prima che Mosè salisse sul Monte Sinai, gli Israeliti avevano rifiutato di incontrare Dio faccia a faccia e avevano preferito che fosse Mosè ad interagire con Lui e riferire i Suoi messaggi.
Ma con l’assenza di Mosè, cosa sarebbe successo? Sarebbero stati costretti a interagire direttamente con Dio? Come sarebbe stato?
L’uomo “che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto” era scomparso. Senza Mosè, gli Israeliti desideravano un altro intermediario e (attingendo dalla loro cultura contemporanea) un vitello d’oro sembrava essere la soluzione ideale.
Quest’ultimo, simbolo di potere, serviva a rappresentare Dio in modo visibile. Come Mosè, faceva da filtro tra il popolo e Dio.
Era un modo per interagire con Dio “in sicurezza”, senza dover sperimentare completamente l’impatto di quella presenza.
Quindi, quando Aaronne dice che il vitello d’oro è “il tuo dio, o Israele, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto” non sta erroneamente attribuendo il potere salvifico di Dio ad un oggetto inanimato; piuttosto sta dicendo:
“questo vitello d’oro rappresenta il Dio che vi ha fatto uscire dall’Egitto e invita la presenza di Dio in un modo sicuro e gestibile”.
L’idolatria presente nella storia del vitello d’oro non consisteva nell’adorare un Dio sbagliato; l’idolatria che vediamo nella storia del vitello d’oro consiste nel desiderare di adorare Dio, ma da una certa distanza di sicurezza e, in questo caso, attraverso l'(ab)uso di un intermediario (il vitello d’oro) che essi stessi avevano creato.
Questa concezione dell’idolatria è molto più applicabile ai credenti moderni.
Nella mia esperienza, le discussioni nelle riunioni della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni che toccano l’argomento dell’idolatria tendono a dare per scontato che la maggior parte delle persone non adora letteralmente falsi dei, ritenendo che ciò sia qualcosa che facevano solo quelle persone più ignoranti nei tempi biblici.
Piuttosto, tendiamo a inquadrare la questione in modo più metaforico e nel contesto della scala delle priorità: ci sono cose mondane nella nostra vita che riteniamo più importanti di Dio (soldi, status, svago, ecc.)?
Questo modo scorretto di stabilire le priorità viene talvolta definito idolatria. In Esodo 32, l’idolatria non è una questione di priorità.
L’idolatria inizia con il permettere, o desiderare, o addirittura preferire che qualcosa si frapponga tra noi e Dio.
Pertanto, l’idolatria, in sostanza, consiste nel cercare di creare una situazione in cui possiamo rendere il culto senza il rischio di incontrare Dio in modo diretto.
Forse più spesso di quanto realizziamo, l’idolatria è il tentativo umano di addomesticare Dio.
E questo tipo di idolatria è molto più allettante per i credenti moderni e più diffuso di quanto potremmo ammettere.
Non facciamoci illusioni, incontrare Dio faccia a faccia può essere spaventoso. Per essere chiari, come già accennato, non sto parlando dei sussurri dello Spirito Santo che ci guidano delicatamente lungo il nostro cammino.
Sto parlando di qualcosa di diverso. Sto parlando di quei tipi di incontri diretti che vediamo nelle vite di personaggi come Abramo, Sara, Giacobbe nell’Antico Testamento, o nel Libro di Mormon, come Enos, Alma il Giovane e i Figli di Mosia, o Joseph Smith e altri.
Sto parlando di incontri che a volte sono letteralmente e a volte metaforicamente sconvolgenti, con terremoti, trombe sonanti e fumo.
Questi tipi di incontri sono rischiosi perché, alla fine, esigono molto da noi. Non è sorprendente che molti di noi, me compreso, preferiscano evitare questo rischio.
Ci accontentiamo di adorare Dio da lontano. Vogliamo adorarLo, ma vogliamo farlo “in sicurezza”.
Come lo facciamo? In che modo creiamo (o permettiamo) che ci siano delle barriere tra noi e Dio?
A volte permettiamo che le cose che hanno lo scopo di permetterci di “incontrare Dio” diventino invece un ostacolo tra noi e Lui.
E quando ciò accade, quando queste cose ci permettono di adorare senza il rischio di un incontro divino, la storia del vitello d’oro suggerisce che stiamo potenzialmente cadendo in una forma di idolatria.
Le Scritture come Idolo
In breve, questa idea suggerisce che, in alcuni casi, interagire con e difendere i testi delle Scritture possa diventare uno scopo in sé.
Il testo sacro stesso, anziché il Dio che vi è dietro, diventa il centro della nostra adorazione (ad esempio, ci preoccupiamo di più della frequenza ideale con cui dovremmo studiare le scritture o di difendere una determinata dottrina riguardo ad esse, piuttosto che preoccuparci se il nostro rapporto con le scritture stia favorendo il nostro rapporto con Dio).
Le Scritture sono fondamentali in quanto possono aiutarci a comprendere i modi in cui Dio interagisce con il creato, e nella comunità dei Santi degli Ultimi Giorni c’è giustamente un’enfasi sulla lettura e lo studio regolari delle opere canoniche.
Ma quando un incontro con le Scritture diventa più importante di un incontro con Dio, potremmo essere coinvolti in una forma di idolatria
La Chiesa come Idolo
L’idea è che, in alcuni casi, l’appartenenza alla chiesa e la partecipazione alle attività ad essa correlate possano diventare un fine in sé (ad esempio, ci preoccupiamo più di partecipare alle riunioni in chiesa o della nostra fedeltà alla chiesa, piuttosto che di come ci connettiamo con Dio).
Quando ciò accade, la dedizione alla chiesa soppianta la dedizione a Dio e la frequenza delle riunione e delle attività prende il sopravvento sullo scopo per cui rendiamo il culto in chiesa.
Come ha recentemente affermato il presidente Dallin Oaks, l’importanza di una comunità di culto forte è una premessa indiscutibile: abbiamo bisogno di una chiesa.
La forza della comunità della chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni è una delle caratteristiche fondamentali della nostra fede.
Ma quando la nostra fede è più fortemente centrata su una specifica struttura organizzativa piuttosto che su Dio, o quando il nostro coinvolgimento in un’organizzazione diventa più immediatamente ed emotivamente importante del nostro coinvolgimento con Dio, potremmo di nuovo cadere in una forma di idolatria.
I dirigenti come idoli
Brigham Young una volta affermò di temere che i Santi degli Ultimi Giorni avessero
“tanta fiducia nei loro leader… [che si sarebbero] accontentati di uno stato di cieca autosufficienza, affidando il loro destino eterno nelle mani di essi con una fiducia sconsiderata che di per sé ostacolerebbe gli scopi di Dio nella loro salvezza.”
Un termine che potrebbe funzionare qui è “episcopolatria” (se inteso in un senso più generale che non si riferisce solo a un ufficio specifico, ma agli uffici ecclesiastici in generale).
Il fatto che la nostra comunità di fede sia guidata da uomini e donne ispirati fa parte, secondo me, del motivo per cui il messaggio dei Santi degli Ultimi Giorni tocca da vicino così tante persone.
Quando la nostra fiducia nei nostri dirigenti è (per usare le parole di Brigham Young) “sconsiderata” e caratterizzata da una “cieca autosufficienza”, cioè quando rinunciamo in un certo senso ad incontrare Dio in modo diretto e cediamo tali cose ai nostri leader, potremmo potenzialmente cadere in un’altra forma di idolatria.
Una delle ragioni per cui amo l’Antico Testamento è il fatto che, nonostante sia un testo antico, continua a sfidare potentemente il cuore e la mente dei credenti anche oggi.
Leggi anche: Cosa simboleggia il vitello d’oro? Simboli antichi e idoli moderni
L’esperienza degli Israeliti al Monte Sinai non fa eccezione.
La storia del vitello d’oro ci porta a riflettere su come e in quali modi anche noi stiamo evitando di incontrare Dio faccia a faccia perché un approccio più addomesticato all’adorazione richiede meno da parte nostra.
Questa storia ci invita a esaminare in modo critico la nostra vita e a considerare in quali aree stiamo rinunciando all’opportunità di interagire direttamente con Dio e quali sono le cose sbagliate sulle quali ci stiamo concentrando nel tentativo di adorarLo.
Come chiarisce la storia in Esodo, Dio vuole essere direttamente coinvolto.
Dio è presente per noi oggi. Siamo disposti a salire sulla montagna avvolta dalle nuvole per incontrare Colui la cui voce è voce di tuono e la cui presenza fa tremare la terra?
Siamo disposti a coinvolgere direttamente la fonte ultima della nostra liberazione e libertà? Siamo disposti a mettere da parte i nostri idoli preferiti e rischiare di ascoltare la voce di Dio da noi stessi?
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