Durante l’ultima conferenza generale il mio interesse si è acceso quando due oratori ci hanno consigliato di non chiedere “Perché?”, ma di chiedere “Che cosa?”.

Susan Porter ha suggerito che se vogliamo la conoscenza dobbiamo “chiedere al Padre Celeste non perché, ma che cosa”. L’anziano Paul Pieper ha raccomandato che, invece di chiedere perché, “chiediamo cosa possiamo imparare?”.

Chiaramente queste affermazioni mi hanno colpito perché sono una che si chiede “perché?”.  Capisco che conoscere la risposta al “perché?” non cambierà ciò che sto vivendo.

Se ho una malattia, sapere perché ce l’ho non la farà sparire. Capisco che, finché ho questa prova, tanto vale sfruttarla al meglio e imparare ciò che ha da insegnarmi. Tuttavia, sapere il “perché” in qualche modo è confortante.

Chiedersi “perché?” per credere di avere il controllo

Quando accadono cose brutte, a primo impatto siamo scioccati, ma potremmo anche essere terrorizzati dall’idea di aver perso il controllo, se non siamo riusciti ad impedire che queste cose accadessero.

Se vi è mai capitato di prendere in pieno una lastra di ghiaccio e avete sentito la vostra auto fare un testacoda, conoscete la terribile sensazione di perdere il controllo.

Ci chiediamo “perché?”, perché questo ci dà l’impressione di avere il controllo. Sapere perché si è verificato un incidente non annulla gli effetti dell’incidente, ma ci dà l’illusione di poter fare qualcosa per evitarlo in futuro.

Avrei potuto guidare più lentamente.

Avrei potuto prendere un’altra strada. Gli “avrei potuto” e gli “avrei dovuto” non rimettono a posto la macchina, ma ci aiutano a sentirci meno vulnerabili.

Quando non sappiamo perché è successo qualcosa, ci sentiamo impotenti e temiamo che possa accadere di nuovo.

Quando mia nipote aveva tre anni, aveva l’abitudine di chiedere “perché?” ogni volta che si faceva male. Voleva delle risposte. “Perché sono caduta?”, chiedeva. “Perché la scala era scivolosa”. “Perché mi sono bruciata la lingua?

“Perché hai preso la pizza quando era ancora calda”. “Perché mi sono tagliata il dito? “Perché hai messo il dito sulla parte affilata delle forbici”.

Scoprire i “perché?” delle sue domande disperate le ha dato la speranza di poter evitare di farsi male in modo simile in futuro.

Tragedie come le sparatorie o gli atti di terrorismo spingono inevitabilmente a chiedersi “perché?”. Cerchiamo risposte a questa domanda nella speranza di prevenire tragedie future.

Se crediamo che la tragedia sia avvenuta perché non ci curiamo abbastanza della questione della salute mentale, ci prodigheremo per diagnosticare in modo più efficace le malattie mentali.

Se crediamo che sia accaduto perché le armi sono troppo facilmente disponibili, esamineremo le leggi sulle armi.

Se è successo perché la sicurezza negli aeroporti è troppo leggera, rafforzeremo i protocolli di sicurezza.

Vogliamo sapere “perché?” in modo da poter avere un controllo su questi eventi. Un senso di controllo ci dà una maggiore sensazione di sicurezza.

Attribuire la colpa

Quando si presentano delle prove, un’altra tendenza, anche se infondata, è spesso quella di incolpare noi stessi.

Anche in questo caso, credere che le prove siano in qualche modo colpa nostra ci dà l’illusione che se avessimo fatto qualcosa di diverso, avremmo potuto evitare la prova.

Questa convinzione può derivare da un’errata comprensione delle Scritture. Il Libro di Mormon ripete spesso il tema:

“Coloro che osservano i comandamenti prospereranno nel paese e coloro che non lo fanno saranno recisi dalla presenza di Dio”.

Lo interpretiamo nel senso che abbiamo un certo controllo su ciò che ci accade.

Se osserviamo i comandamenti, anche noi dovremmo diventare ricchi e godere delle benedizioni materiali e se non diventiamo ricchi, ci chiediamo quale comandamento non abbiamo osservato.

Tuttavia, “prosperità” non equivale necessariamente a ricchezza. Nel Libro di Mormon “prosperare” è l’opposto di “essere recisi dalla presenza di Dio”.

Il contrario di “essere recisi dalla presenza di Dio” è “godere della presenza di Dio”. Pertanto, se osserviamo i comandamenti, godremo della presenza di Dio.

Alcuni studiosi ritengono che “prosperare” significhi avere “fortuna”, non necessariamente in termini di ricchezza.

La fortuna potrebbe presentarsi sotto forma di salute o di posterità, di un’invenzione o di un problema risolto. Altri ritengono che “prosperare” significhi “avere un senso di pace e di soddisfazione”.  

Se osserviamo i comandamenti, avremo un senso di pace e di soddisfazione.

Paradossalmente, incolpando noi stessi per una prova, anche quando siamo obbedienti, ci priviamo della pace e della soddisfazione.

È una tragedia, perché l’obbedienza ai comandamenti ci dà diritto alla pace e alla soddisfazione.

Assolvere il senso di colpa

Se siamo convinti che la nostra obbedienza possa scongiurare le prove, possiamo chiedere “perché?” per assicurarci di avere la coscienza a posto.

Vogliamo essere sicuri che la prova non sia dovuta a un nostro comportamento errato. Chiediamo “perché?” perché vogliamo essere rassicurati che la prova non sia dovuta alle nostre scelte sbagliate.

In questo caso “perché?” è una domanda molto produttiva, perché a volte le prove sono il risultato delle nostre scelte sbagliate.

Se la risposta alla domanda “Perché ho avuto un incidente d’auto?” è “perché guidavo sotto l’effetto dell’alcol”, allora la prova ha un senso.

Quando le nostre azioni contribuiscono chiaramente alla prova che stiamo affrontando, possiamo fare qualcosa per evitare che si verifichino eventi simili in futuro.

Tuttavia, la maggior parte delle volte non c’è nessuno da incolpare. La prova non è stata causata da noi e non ha nulla a che fare con la nostra obbedienza. Con la nostra comprensione limitata non ha senso. 

Lasciare andare e lasciare a Dio

lasciare che Dio prevalga nella nostra vitaSpesso le cose brutte accadono alle persone buone. Pertanto, non possiamo creare una formula matematica per spiegare il “perché” di tutte le prove.

Non possiamo discernere quali prove si presenteranno sulla nostra strada e non possiamo creare un elenco di tutte le cose che dovremmo fare per evitare tali prove.

Quando le prove sono causate dalle nostre scelte, possiamo creare un elenco di cose da fare per evitarle.

Tuttavia, molte prove arrivano senza alcuna colpa da parte nostra. Non possiamo prevederle né prevenirle.

A prescindere da tutti i “perché” a cui non sappiamo rispondere, credo che ci sia un “perché” a cui possiamo rispondere che è applicabile a tutte le prove.

“Tutte queste cose ti daranno esperienza e saranno per il tuo bene” (DeA 122:7).

Questa è la risposta che Joseph Smith ricevette quando fu incarcerato nel carcere di Liberty. Questa potrebbe essere la risposta a tutti i nostri “perché?”.

Abbiamo bisogno di fare esperienza. Abbiamo bisogno di sperimentare l’opposizione, e le prove alla fine saranno per il nostro bene.

“Che cosa?” è la domanda che la sorella Porter e l’anziano Pieper ci invitano a porre al posto di “perché?”. Cosa farò con questa prova?

Mi lamenterò e cercherò qualcuno da incolpare? Oppure avrò fiducia nel Signore e riconoscerò che le Sue vie sono giuste. “Starò fermo e saprò che [Dio è] Dio” (Salmo 46:10).

Perché chiediamo “Perché”?

Perché chiediamo “Perché” - 1Nella maggior parte dei casi soffriamo già abbastanza a causa delle nostre difficoltà, siano esse fisiche, emotive, finanziarie o spirituali, e l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è sentirci abbandonati da Dio.

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Sentirsi abbandonati da Dio non fa che acuire il dolore delle difficoltà.

Sapere che Dio ci ama e che il Salvatore è al nostro fianco durante la prova la rende infinitamente più sopportabile.

Sapere che il Salvatore soffre per noi durante le nostre prove ci aiuta a riconoscere che queste ultime non sono punitive.

Quando riconosciamo che le prove possono essere per il nostro bene, possiamo guardare indietro ed essere grati. A quel punto possiamo vedere le benedizioni che ne sono derivate.

Perché chiediamo “Perché?” È stato pubblicato su MERIDIAN MAGAZINE . Questo articolo è stato tradotto da Ginevra Palumbo.

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